Presentazione
La montagna di Torcello – così la chiamano – sta tutta dentro l’orto di casa sua e vanta un’altezza ragguardevole, 50 centimetri, un quarto in più rispetto al resto dell’isola veneziana, 2 metri sul livello del mare. Lì sopra Paolo Andrich ha messo a dimora 4.000 piante di carciofo, che fino a qualche anno fa venivano concimate spargendovi intorno a mo’ di fertilizzante gli inservibili maschi delle prelibate moeche (molleche) pescate nella vicina Palude della Rosa dai moecanti di Burano: i poveri animaletti, triturati, conferivano al vegetale una salatura e un sapore unici.
Paolo Andrich, laureato, con i suoi carciofi
Dal 25 aprile, quando è pronto il primo, chiamato el bòcolo (il bocciolo) de San Marco, in onore del patrono che si festeggia quel giorno, ne produce sino ai primi di giugno circa 10.000. «Ma se all’inizio per un articiocco riesci a prendere 1,60 euro, a fine stagione sei fortunato se ti danno 60 centesimi. Così ho deciso di venderli per il fiore, bellissimo, che ai turisti piace tanto. Quello vale 5 euro».
Dura la vita dell’ultimo contadino di Torcello quando persino Bonifacio Brass, titolare della locanda Cipriani che sorge a 700 metri da questo eden agricolo, smette di comprarti i violetti di Sant’Erasmo, la varietà più pregiata esistente al mondo, perché gli sembrano troppo cari. Il figlio di Tinto, il regista che ha canonizzato il lato B di parecchie attrici, è subentrato alla madre Carla Cipriani nella conduzione dello storico locale aperto dal nonno Giuseppe negli anni Trenta, dove Ernest Hemingway cominciò nel 1948 la stesura del romanzo Di là dal fiume e tra gli alberi, per poi tornarvi a completarlo nel 1950.
Anche Paolo Andrich, iscritto alla Coldiretti, custodisce un’eredità: quella della casa-museo e dell’orto-giardino di 11.000 metri quadrati ricevuti dallo zio Lucio Andrich, pittore, incisore, scultore, insegnante di mosaico e straordinario artigiano del vetro, degli arazzi e della seta nato ad Agordo nel 1927, che visse qui fino alla morte, avvenuta nel 2003. «Mi ha lasciato anche 1.300 opere d’arte. Ogni tanto mi tocca venderne una. Se non avessi messo da parte qualcosa con il mio precedente lavoro, non so proprio come riuscirei a sbarcare il lunario». Questo nonostante coltivi da solo 98 diversi tipi di piante, dal cardo al giuggiolo, dalla guaiava al castagno, dal ribes alla salicornia, un’erba che si usa al posto del sale. E persino lecci, noccioli e pini con le radici micorizzate a tartufo. «Ma, se tutto va bene, i primi tuberi li vedrò solo fra cinque anni. Quanto alle fragole, se le mangiano i fagiani, mentre con le quattro varietà d’uva banchettano gli uccelli».
L’agricoltore di Torcello vive nella proprietà da solo, dopo la morte, nel 2013, del socio Heiko Plottke, food designer tedesco che lavorava per la Tv e la pubblicità, originario di Barth, sul Mare del Nord, che s’era innamorato dell’isola: «È stato cremato. Le sue ceneri le ho sparse nell’uliveto». Arrotonda con un po’ di agriturismo e di bed and breakfast, due camere per viaggiatori cólti in cerca di quiete, che la sera s’incantano ad ascoltare Andrich mentre declama l’Iliade tradotta in veneziano da Giacomo Casanova oppure le liriche di Andrea Zanzotto. È stato dopo averlo sentito recitare alcuni versi del poeta trevigiano, «oci de bissa, de basilissa, testa de fogo che ‘l giasso impissa», con quel refrain «Venessia, Venissa, Venusia», che Gianluca Bisol, il re del Prosecco, ha avuto l’ispirazione di battezzare Venissa il suo costosissimo bianco imbottigliato sulla vicina isola di Mazzorbo.
I genitori di Andrich partirono dalle montagne del Bellunese nel 1956 per andare a cercare fortuna in Svizzera, lui come meccanico per auto e lei come artigiana di precisione nelle fabbriche orologiere Omega, Bulova e Heuer. Paolo nacque a Biel Bienne, nel Canton Berna, terzo di quattro figli. Quando i suoi tornarono in Italia, avrebbe voluto frequentare il liceo linguistico a Cortina d’Ampezzo, ma era troppo distante da casa. Lo costrinsero a ripiegare sull’istituto minerario Umberto Folador di Agordo, il che spiega la sua passione per la geologia della laguna, per le barene tappezzate di limonium, per il gas che esce dal sottosuolo sotto forma di bollicine, gorgogliando a fior d’acqua e alimentando antiche leggende di diavoli, quasi che salisse dall’inferno. «Secondo uno studioso polacco, quel ribollire testimonierebbe l’incrocio fra due potenti linee di energia positiva che intersecano il globo terrestre».
Non sono rimasti in molti a Torcello. I residenti che stanno qui tutto l’anno sono appena 9, compreso Andrich. A disposizione hanno 44 ettari di terra, quanto la Città del Vaticano. Ufficialmente la densità di popolazione sarebbe di 54 abitanti per chilometro quadrato. In realtà il rapporto teste-superficie scende ai 20 dell’inverno, contro i 198 dell’Italia e i 7.448 di Milano. «Il conto è presto fatto. C’è la Sandra, che ha un banchetto di souvenir, con il marito Alfio e il figlio Davide. C’è la Gianna, pensionata, moglie del direttore delle Poste di Burano. C’è suo cugino Giorgio, che era ragioniere alla Colussi biscotti. Ci sono le signore Barbierato, che avevano una trattoria al Ponte del Diavolo. C’è Sandra Nason, che fu allieva di mio zio e per una vita ha plasmato maschere veneziane».
Fino a quattro anni fa c’era ancora la postina Giuliana Tagliapietra, che portava le lettere remando in piedi sul suo sandolo. È morta ultraottantenne. «È stata la memoria storica dell’isola. Mi raccontava che Hemingway la sera chiamava i giovani di Torcello alla locanda Cipriani e gli pagava da bere perché tenessero compagnia alla moglie Mary Welsh, che era molto affabile e capiva l’italiano. Lui invece saliva in camera con due bottiglie di Amarone, a scrivere».
Fu nel 1948 che il romanziere americano, diretto in auto a Trieste, scavalcando il fiume Dese a Ca’ Noghera vide ergersi in lontananza dall’acqua, come in un sogno, il massiccio campanile della basilica veneto-bizantina di Santa Maria Assunta, risalente al 639, che con Santa Fosca è l’unica delle nove chiese un tempo esistenti a Torcello a non essere stata divorata dal mare e dai secoli. «Voglio andare là», puntò il dito.
E lei com’è arrivato a Torcello?
«La prima volta fui mandato dai miei a tenere compagnia allo zio, rimasto vedovo. Era il 1982. Gli era morta da poco la moglie Clementina, crocerossina conosciuta nel sanatorio del Lido, dove lui, medaglia d’oro al valor militare, ferito durante la lotta partigiana, era stato ricoverato privo di un polmone. Avevano poi frequentato insieme l’Accademia di Belle arti a Venezia, dove in seguito lo zio fu l’ultimo docente di mosaico prima che la cattedra venisse soppressa. Si sposarono, si lasciarono e si risposarono, perché lui era un bell’uomo, sempre inseguito dalle studentesse».
Che ci faceva tutto solo sull’isola con uno zio di 55 anni?
«Mi ero iscritto allo Iuav di Venezia per diventare architetto. Alla fine mi sono laureato in pianificazione territoriale urbanistica. Per qualche tempo ho redatto i piani regolatori dei Comuni del Nordest, ma ho gettato subito la spugna: troppi condizionamenti politici».
E si è dato all’agricoltura a Torcello.
«Non subito. Ho vissuto due anni a Parigi, frequentando l’École des hautes études en sciences sociales. Seguivo le lezioni di Jacques Le Goff e Milan Kundera. Nel 2002 lo zio si ammalò di cancro alla prostata. In breve tempo le metastasi si estesero al cervello. I medici gli diedero due mesi di vita. Così ritornai per accudirlo. Da allora abito qui. Ho assistito alla questua dei parenti, che giungevano al suo capezzale nella speranza di portarsi a casa qualche opera d’arte. Ero stato costretto a giurare di non dire a nessuno che mi aveva nominato suo erede universale fin dal 1996».
Percepisco che ha contato molto nella sua formazione.
«Nella formazione di tutti i suoi studenti. Ancora oggi molti di loro vengono qui e mi dicono: ?Quante pedate nel culo ci ha dato tuo zio perché non studiavamo abbastanza?. Paolo Cacciari, fratello di Massimo, l’ex sindaco di Venezia, che lo ebbe come insegnante, ricorda che gli piombava alle spalle, lo spingeva un po’ in là, si sedeva sul suo sgabello e per prima cosa gli faceva rifare la punta della matita: ?Non è un chiodo!?, lo redarguiva. Per lo zio disegnare era lavorare. E lavorare era la vita. Stava per ore e ore a comporre le polveri di una formella nella vetreria Nason e Moretti a Murano. Poi magari, al momento di portarla dentro per metterla nella muffola, un colpo di vento gli scombinava tutto e lui ricominciava daccapo. Avevo 8 anni la prima volta che mi mandò da solo a visitare la Biennale».
Come si vive a Torcello?
«Da dio, se non fosse per il milione di turisti che ogni anno i lancioni (vaporetti, ndr) ci scaricano addosso, a frotte di 300-400 al colpo, lasciandogli solo mezz’ora di tempo per poi salpare alla volta di un’altra isola, anche se questa è l’ultima, di più lontana c’è solo Santa Cristina, dove però possono approdare solo i proprietari, gli Swarovski. Si vive con le porte aperte. Ho il mio rio privato, il Ghebo del ciucio, che uso anche come piscina. Ho il pontile per il motoscafo. Ho Wagner, il mio cane còrso. Ho la vista migliore di tutta l’isola sulla Palude della Rosa, popolata da 2.800 fenicotteri che sono di quel colore perché mangiano i gamberetti tipici di queste acque. Hemingway ci veniva in barca a caccia di anatre con il Bepi Cipriani».
Senza la locanda Cipriani, Torcello non la conoscerebbe nessuno.
«Ovvio, non sarebbero venuti a dormirci la regina Elisabetta d’Inghilterra, il presidente francese Valéry Giscard d’Estaing, Lady Diana, Charlie Chaplin e Paul Newman. Ma l’archeologo Diego Calaon mi assicura che quando l’antica Roma contava 30.000 abitanti, a Torcello ce n’erano 3.000, non so se mi spiego».
Sì, però oggi siete appena 9.
«Su 15 case, metà sono in vendita. I proprietari chiedono cifre astronomiche».
A quando risale l’ultima nascita?
«All’ultimo matrimonio, quello di Simone Regazzo, il sacrista di Santa Maria Assunta, cinque o sei anni fa. I tre figli sono nati qui. Poi ha preferito trasferirsi a Burano, dove almeno ci sono le scuole per i bambini. Se n’è andato anche il parroco, anzi l’abate mitrato, è quello il suo titolo, don Ettore Fornezza, che fu segretario del patriarca Albino Luciani prima che diventasse Papa Giovanni Paolo I. Oggi abita a Venezia e viene a celebrare messa il sabato e la domenica».
Siete lontani da tutto.
«Devi avere una barca per andare a fare la spesa sulle isole vicine o a Venezia. D’inverno, con il caligo (la nebbia, ndr), sarebbe obbligatorio il radar, ma ce lo vede lei su un barchino come il mio? Una volta, mentre tornavo alle 3 di notte, mi sono perso. Ho rischiato di morire congelato in mezzo alla laguna».
C’erano molti contadini a Torcello?
«Circa 80, fino agli anni Cinquanta».
Usufruisce di qualche sovvenzione?
«Sovvenzione? Il Comune mi ha chiesto 37.000 euro per portarmi le tubature del gas fino al cancello della proprietà, per cui ho dovuto ripiegare sulla caldaia a pellet. Sono 10 anni che chiedo al municipio di concedermi in affitto, a pagamento, 2,5 ettari di terreno incolto. Ci volevo aprire una fattoria sociale per detenuti in semilibertà, con un’oasi per il birdwatching, e sviluppare il turismo a chilometro zero. Niente, preferisce lasciarli ricoperti dai rovi».
Neanche presso Massimo Cacciari ha trovato udienza?
«Quand’era sindaco, Cacciari è stato a Torcello solo una volta e solo per due ore. Non la conosce. La considera la periferia della periferia. Se si fosse fermato qui, avrebbe potuto scrivere meglio i suoi libri».
Che intende per turismo a chilometro zero?
«Vieni a Torcello e stai fermo. Mica c’è bisogno di altro. Come scrive Vittorio Sereni del paesaggio italiano, qui c’è solo da guardare. Ogni sei ore, per effetto delle maree, il panorama cambia. Sembra un pentagramma».
Fa vita sociale?
«Il minimo. Mi alzo alle 6 con le galline e alle 9 di sera sono già a letto. D’estate, se non ho visitatori, sto nudo come Adamo, tanto nessuno può vedermi. Ogni tanto mi capita di ricevere qualche Vip in cerca di emozioni. È venuta Amanda Sandrelli con il marito Blas Roca Rey e ho ospitato il set fotografico per un servizio di Vogue su Ambra Angiolini».
Se chiude gli occhi, come se li immagina i suoi predecessori che fra XII e XIII secolo costruirono lo sfavillante mosaico del Giudizio universale nella basilica di Santa Maria Assunta?
«Come dei bon vivant. Soltanto chi si gode la vita fa cose belle. Tutti gli altri lavorano e basta».
(706. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it