Già prima di scendere dal treno, quando il muso del Freccia imbocca l’ingresso della Stazione Centrale, ogni volta appoggio la guancia al finestrino e guardo fuori: il treno è sinuoso nella sua entrata in stazione, direi quasi nobile come il volo di un gufo reale nella notte, silenzioso e largo, perfetto.
Che sia estate o tardo autunno, appena scendo dalla predella metto piede sul suolo milanese e mi sento bene. Non avverto l’aria circostante, o meglio, il mio corpo l’avverte, ma non la mente: l’odore tipico delle stazioni entra nelle narici, l’orecchio è frustato dal rumore prima confuso poi distinto di ogni elemento: le rotelle dei trolley, il vociare, gli avvisi di arrivo e partenze. Ma per me è subito un sottofondo familiare e la mente è tutta rivolta verso l’alto, mentre guardo la volta in metallo stile liberty. E sono semplicemente felice perché ogni volta mi succede qualcosa che sarà degna di essere annotata sul mio taccuino. Il mio rito è sempre lo stesso: cercare il negozio dei moleskine interno alla stazione e comprare qualche quaderno su cui imprimere i timbri blu e rossi con su scritto Stazione Centrale di Milano. Li porterò poi a casa come una reliquia di una città che a me tutto pare tranne che frenetica e invivibile. Il percorso è quasi sempre lo stesso: metro o taxi e si fa tappa in albergo per lasciare la valigia. Ma le variazioni sul tema, anche quando si tratta di viaggi di lavoro, non mancano. Una volta ad attendermi stava Peppe e quella volta la tappa fu Pavia, con una breve sosta a Milano per un aperitivo abbondante e gustoso; un’altra volta con Vittoria si andò subito a Rho, in fiera. Ma quello che non cambia mai è uscire dalla stazione, voltarmi indietro verso l’ingresso monumentale e pensare: ah che bello sono a Milano. Con la coda dell’occhio destro scorgo il Pirellone, ma io mi dirigo a sinistra, in cerca dei taxi, quando non devo usare la metro.
Il mio primissimo ricordo di questa città appare come l’immagine televisiva di un vecchio film. Nevicava, cadevano fiocchi radi in modo disordinato, spinti dal vento. Uscivamo (io Vittoria e Gianni) dalla metro e dal basso degli scalini non vedevamo il Duomo in tutta la sua imponenza. Salite le scale, guadagnata la piazza antistante, rimasi ferma e incantata. Ebbi lo stesso sentimento vedendo per la prima volta la cattedrale di Trani sul mare, pulita, essenziale grande e maestosa che si lancia verso l’alto con la sua doppia rampa di scale che conduce al portale. Lì è la purezza dello stile romanico che riempie gli occhi, e il mare che fa spaziare lo sguardo. Stavolta era un altro tipo di sobrietà architettonica che mi colpiva, quella possente triangolarità che racchiudeva la ricchezza del gotico. Il tutto in un chiaro colore quasi accecante. I 630 anni di storia in questo periodo sono festeggiate con diverse attività, ma la prima volta che lo vidi, il simbolo di Milano, era di sera, era chiuso ed era una vista di cui potei godere pochi minuti perché l’indomani avrei lavorato. Rientrai quasi subito in metro per andare in albergo e dormire.
L’avrei visto in altre occasioni, anche all’interno, così come avrei visto in altre occasioni la raffinata Galleria Vittorio Emanuele II in stile neorinascimentale, tra i più celebri esempi di architettura del ferro in Europa. Ci avrei sostato persino seduta sulla valigia con tanto di poliziotto e suo rimprovero : «No scusi guardi, mi girava la testa». «No l’ambulanza no, mi pare esagerato, ora mi alzo»
Avrei visto altre volte Brera.
Avrei cenato ai Navigli.
Avrei visto il Palazzo della Regione e avrei fatto chilometri fra i padiglioni di FieraMilano a Rho.
Avrei visto le strade costeggiate dai platani. Avrei visto gli alberghi, Viale Monta Rosa.
In un’altra occasione, di sera, avrei visto l’Arco della Pace, trionfale, all’inizio di corso Sempione. Wikipedia mi illuminò: “dedicato alla pace tra le nazioni europee raggiunta nel 1815 con il congresso di Vienna, fu inaugurato il 10 settembre 1838 con una fastosa cerimonia presieduta dall’appena incoronato imperatore Ferdinando I d’Austria; rappresenta uno dei maggiori monumenti neoclassici di Milano.”
Ricordo solo che era bello, e che non c’era nessuno in giro alle undici di sera.
Ma il Duomo rimane il passaggio che mai si può saltare in visita a Milano.
Ci tornai qualche estate fa, dopo che il sole fu tramontato: suonava nei pressi un artista di strada dalla voce meravigliosa che cantava e suonava con la chitarra Let Her Go dei Passenger.
No, non ballava nessuno, io avrei ballato. Ma era tutto bello lo stesso, perché quella canzone d’amore in inglese sembrava non offendere le guglie medioevali del Duomo, anzi, direi che non poteva esserci atmosfera più languida, perché Milano può essere anche così, stupendamente romantica.